La montagna frontale di Gianluca Negrini e lo spazio del gesto.
(dal catalogo della mostra La montagna frontale, Galleria Civica di Monza, dicembre 2024)

Il paesaggio, in questa fase recente della pittura di Gianluca Negrini, è un dramma materico giocato su un addensarsi di concrezioni figurative e slarghi di riposo visivo. «La montagna», mi dice l’artista stesso, «è un ammasso di materia», come lo erano le tele sullo stesso soggetto che avevano consentito a Enrico Baj di uscire dal Nuclearismo e di ripensare la logica dell’Informale: come in quel caso, la costruzione dell’immagine è avvenuta attraverso una organizzazione consapevole dello spazio compositivo, che è andata a governare quell’impulso veloce che fa della tela lo spazio fisico del gesto. È possibile infatti che i quadri che Negrini realizza oggi abbiano origini molto più lontane, nell’alunnato braidense con il bolognese Maurizio Bottarelli – che era subentrato sulla cattedra di Scirpa – e soprattutto nella frequentazione dello studio di Sergio Dangelo, che costituiva una lezione di profonda libertà inventiva e di accostamento alla pittura senza filtri o pregiudizi di mestiere. Insieme agli incontri con Emilio Tadini, con Cesare Peverelli e con Baj stesso, questi erano stati i pilastri della sua formazione, lasciandogli memoria di un metodo di lavoro che, presto o tardi, doveva riemergere in superficie e condurlo a un ripensamento profondo del modo di far pittura, giungendo persino a una profonda revisione di quadri di poco precedenti. Gianluca, infatti, spesso interviene coprendo tele già dipinte in maniera completamente diversi per genere e stile, di cui di tanto in tanto affiorano il telaio compositivo o ulteriori immagini, al punto che una natura morta di fiori con larghi petali può suggerire la struttura di una vallata, il vallo di un ghiacciaio, la vetta brulla di una montagna: più quadri, insomma, si sono nel tempo sovrapposti in una stratificazione complessa del palinsesto, lasciando che uno strato interagisca e influisca sulla forma data alla raffigurazione delle stesure successive.

Si tratta infatti di paesaggi mentali, privi di riferimenti a luoghi riconoscibili, per quanto dalla memoria affiori il ricordo delle vette alpine: la montagna è il frutto del movimento della mano, che segue un proprio rituale e una propria educazione gestuale nel tracciare una serie di segni dal cui intreccio, o meglio dalla disposizione di una serie di macchie di colore scuro contrapposte ad altre più chiare, nascerà un’immagine di senso, chiara alla distanza, ma pronta a dissolversi mano a mano che ci si avvicina alla superficie della tela. Il declivio scosceso si addensa, la materia diventa grumo, talvolta sembra alludere a quella poltiglia provocata dal disgelo, e non c’è un segno che non venga d’impulso, anche quando si chiarisce una struttura d’immagine, e non è detto anzi che questa non possa prendere forma per affioramento attraverso la cancellazione di una precedente figura, o per apparizione improvvisa all’interno di una macchia ancora non precisata.

In un primo tempo, ma per poco, si era servito della fotografia come appunto visivo per impostare la composizione, lavorando con una materia sottile, senza spessori e lasciando in molti punti la tela scoperta: non un lavoro di copia, ma di riscrittura del modello di partenza sintetizzato in una serie di gesti brevi, tutti contenuti nella rotazione del polso, come una solarizzazione che distingueva il bianco e il nero in grandi masse compatte. In un secondo tempo, poi, Gianluca non avrebbe più sentito il bisogno di ricorrere a questo espediente, rendendosi conto che quelle prime tele di paesaggio lo ponevano al bivio se intraprendere la strada della pittura di materia, o se spingere su quell’impressione di calligrafia visiva in punta di pennello: fu a quel punto che scelse la prima strada, aggiungendo materia con spessore talvolta insistito.

Ma giunto a quella soluzione, non era nemmeno più necessario ricorrere a un supporto esterno come promemoria per stabilire la distribuzione di spazi e forme, come se il paesaggio fosse stato interiorizzato al punto da far maturare una confidenza più intima con quel tema iconografico. Del resto, come si accennava prima, nella scelta di una certa conformazione idrogeologica l’artista tradisce un’origine geografica riconoscibile, che lo colloca nel solco di quei lombardi “malinconici” che dichiararono una fedeltà assoluta al paesaggio naturale della propria terra. Del resto, quel tipo di impianto compositivo, che sta alla radice di molto paesaggismo astratto che si sviluppò a partire dagli anni Cinquanta, risente di un certo modo di vivere e vedere la montagna, del suo pararsi davanti allo sguardo come una vera e propria parete che si erge in altezza: più che sviluppare in profondità, come accade a quei pittori nati e cresciuti nell’Italia centrale, che si sono esercitati sul paesaggio appenninico e sull’andirivieni collinare delle valli, l’artista lombardo punta a un paesaggio frontale, visto a volte leggermente dal basso, ma comunque con una certa prossimità, e con un massiccio centrale granitico che copre buona parte della tela. 

Ma le montagne “frontali” di Gianluca Negrini trovano spazio, accanto alla pittura, anche in una serie di incisioni, in cui l’atteggiamento sperimentale dell’artista ha trovato campo libero per accostare la lastra di metallo prima e di plexiglass poi, senza pregiudizi ideologici. C’è un grande foglio, per esempio, che di primo acchito fa pensare a certe sintesi grafiche della stampa giapponese, finché non ci si accorge che in realtà è frutto della sovrapposizione di più lastre sottoposte a un lungo e aggressivo processo di morsura fino a “bruciare” la lastra. In quel modo aveva ottenuto delle campiture difficili da stampare, ma che si prestavano a creare, tramite asportazione di inchiostro, un effetto di movimento di volta in volta diverso interno alle singole aree sottoposte alla corrosione dell’acido. In un secondo momento, invece, passando al plexiglass – che offre il vantaggio di poter vedere in trasparenza la composizione finale oltre a pensarla in controparte – ha trovato una nuova soluzione operativa. In un primo tempo aveva tradotto quelle montagne in un rabbioso lavoro di segno, un po’ tedesco, finché non ha capito che la macchia a spessore poteva risolvere un movimento magmatico interno agli scuri e alle zone piene delle sue immagini. Successivamente, invece, era arrivato alla conclusione che la tecnica ideale per tradurre in calcografia il proprio mondo di immagini era il carborundum, spazzolando energicamente la lastra in fase di inchiostratura in modo da far emergere dei bianchi all’interno della materia a rilievo, come un effetto da frottage, a cui brevi scritture a puntasecca fanno da contrappunto. Qui il bianco abbagliante della carta è cruciale, perché sottoposto a pressione assume un rilievo tattile del tutto inedito. Imprimendo dunque col torchio matrici scariche di inchiostro, Gianluca si affida all’operazione di pulitura e stampa tenendo un largo margine di interpretazione e variazione dell’immagine: la materia si ritrae, come un ghiacciaio che fa riemergere la terra e la pietra, come improvvisa, fugace, retinica apparizione.

   
Luca Pietro Nicoletti



Gianluca Negrini’s Frontal Mountain and the Space of Gesture.
(from the exhibition catalog La montagna frontale, Monza Civic Gallery, December 2024)

In this recent phase of Gianluca Negrini’s painting, the landscape becomes a material drama, composed of dense figurative concretions and visual resting spaces. “The mountain,” the artist himself tells me, “is a mass of matter,” much like the canvases on the same subject that once allowed Enrico Baj to break away from Nuclearism and rethink the logic of Informalism. As in that case, the construction of the image occurs through a conscious organization of the compositional space, which governs the impulsive energy that transforms the canvas into the physical space of gesture.
It is indeed possible that the paintings Negrini creates today have much older origins, dating back to his student days at the Brera Academy under the Bolognese painter Maurizio Bottarelli—who had succeeded Scirpa—and, more importantly, to his time spent in the studio of Sergio Dangelo. There, he encountered a lesson in profound creative freedom and an unfiltered, prejudice-free approach to painting. Along with encounters with Emilio Tadini, Cesare Peverelli, and Baj himself, these experiences formed the foundation of his artistic education. They left him with the memory of a working method that was bound to resurface and lead him to a deep reconsideration of his way of painting—even to the point of revisiting and revising works painted only shortly before.
In fact, Gianluca often intervenes on already painted canvases, completely different in genre and style, where previous compositional frameworks or images occasionally re-emerge. A still life of flowers with large petals, for instance, might suggest the structure of a valley, the edge of a glacier, or the bare summit of a mountain. In essence, multiple paintings have over time overlapped in a complex stratification of the palimpsest, allowing one layer to interact with and influence the form given to subsequent applications.

These are mental landscapes, lacking direct reference to recognizable places, even if memories of Alpine peaks emerge from time to time. The mountain becomes the result of hand movement, following its own ritual and gestural education. Through a series of marks—through the arrangement of dark color patches opposed to lighter ones—a meaningful image is born, legible from a distance, but ready to dissolve as one approaches the surface of the canvas. The steep slope thickens; the matter clots and sometimes seems to allude to the slush produced by thawing. Every mark is made impulsively, even when a compositional structure becomes clear. In fact, such a structure might form by the emergence of a previous figure being erased or by the sudden appearance within an as-yet-unresolved blotch.

At first, albeit briefly, Negrini used photography as a visual sketch to structure the composition, working with thin, textureless material and leaving parts of the canvas exposed. This was not copying, but rewriting the model, distilled into a series of brief gestures, all contained within the wrist’s rotation—like a solarization that separated black and white into large compact masses. Later, Gianluca no longer felt the need to use this device, realizing that those early landscape canvases brought him to a crossroads: either to pursue material painting or to continue refining that sense of visual calligraphy with the tip of the brush. At that point, he chose the first path, applying increasingly thick material.

Once he reached that solution, there was no longer any need for an external reference to define space and form, as if the landscape had been internalized to the point of developing an intimate familiarity with the iconographic theme. As mentioned earlier, in choosing a certain hydrogeological configuration, the artist betrays a recognizable geographical origin, placing him among those “melancholy” Lombard artists who pledged absolute loyalty to the natural landscape of their homeland.
Furthermore, this type of compositional structure—at the root of much abstract landscape painting developed since the 1950s—reflects a particular way of experiencing and seeing the mountain, presenting itself before the gaze like a true vertical wall. Rather than developing in depth, as with painters from central Italy who depicted the rolling hills and valleys of the Apennines, the Lombard artist tends toward a frontal landscape, seen slightly from below but still close, with a central granite massif covering much of the canvas.

Negrini’s “frontal” mountains also find space beyond painting, in a series of prints where the artist’s experimental attitude found freedom—first with metal plates and later with plexiglass—free from ideological constraints. One large sheet, for example, initially resembles the graphic synthesis of Japanese prints, until one realizes it results from the superimposition of multiple plates subjected to a long and aggressive etching process that “burns” the plate. In this way, he obtained areas difficult to print, yet capable—through ink removal—of creating a constantly shifting internal movement within the corroded zones.
Later, working with plexiglass—which allows for transparent viewing of the final composition and its reverse—he discovered a new operational solution. Initially, he translated those mountains into a furious, somewhat Germanic series of marks, until realizing that thick stains could better resolve the internal, magma-like movement of the dark and solid areas. Eventually, he concluded that the ideal technique to render his world in printmaking was carborundum, brushing the plate vigorously during inking to reveal whites within the raised material—creating a frottage-like effect, accented by short drypoint engravings. Here, the blinding white of the paper is crucial, as it gains a new tactile relief under pressure.
By printing with nearly inkless plates, Gianluca relies on the act of wiping and printing to leave room for interpretation and variation of the image: the material recedes, like a glacier revealing earth and stone—as if a sudden, fleeting, reticular apparition.


                                                                                                                                                                                     Luca Pietro Nicoletti

gianlucanegrini.com